Giovanni Pintacuda
Bagheria, 6 novembre 1942 – Palermo, 3 maggio 2009

Uno dei libri più belli che abbia mai letto sono Le Correzioni” di Jonathan Franzen: l’ho ripreso in mano in questi giorni tristi e senza fine e ho riletto di Alfred, sceso nello scantinato con un fucile, un biscotto e l’immancabile poltrona blu.
Davanti alla spirale di vecchie lampadine di natale, Alfred pensa al tempo che impietoso passa.

Da una vita accumula oggetti fuori uso per ridargli vita, e con essa illudersi di poter sconfiggere il tempo:

Oh, il mito, l’infantile ottimismo delle riparazioni! La speranza che gli oggetti non si logorassero mai! La sciocca fiducia nel fatto che ci fosse sempre un futuro in cui lui, Alfred, non solo sarebbe stato vivo ma avrebbe avuto sufficiente energia per aggiustare le cose.

La tacita convinzione che alla fine tutta la sua frugalità e la sua passione di conservatore avessero uno scopo, e che un giorno, svegliandosi, si sarebbe trasformato in una persona completamente diversa, con tempo e energia infiniti per occuparsi di tutti gli oggetti che aveva conservato, per mantenere tutto funzionante, tutto a posto.

Mi sono commosso. Perché mio padre faceva la stessa identica cosa. Sin dove arrivano i miei ricordi, c’è sempre lui che fruga nella nostra immondizia per salvare dal limbo della nettezza urbana oggetti che possono andare bene per altri cent’anni. Questo secondo la sua rosea prospettiva.

Io e la manualità ci siamo frequentati parecchio solo nei miei verdi anni. Dopo la corroborante crisi adolescenziale ho preferito occuparmi di parole e di altre laborosie inezie. Già, io e mio padre siamo complementari. Come il pane e il burro. La complementarietà è perfetta: a me le parole stampate, digitate, lette e amate, a lui i fatti, i chiodi, le viti e il cacciavite americano. Il mio omonimo nonno era falegname e mio padre era il suo assistente, il suo picciotto di bottega. Gli altri quattro fratelli hanno preso altre strade. Poi mio padre è partito a fare il finanziere nel nucleo alpino. Lì con la penna sul cappello, a cantare canzoni sconce che condivise con me solo dopo i miei 18 anni.

Tornato dalla Finanza si sposò con mia madre, la più bella figlia del meccanico della Marina Regia che quando sbarcò s’aprì un’officina. Capite bene, con questi presupposti mi verrà per figlio come minimo la reincarnazione di Archimede Pitagorico.

Mio padre era del ’42, io dell’ottantadue, ci separavano quarant’anni.  Quarant’anni in cui mio padre aveva messo da parte cose che ad aggiustarle tutte ci sarebbero volute sei vite. Ripenso a lui, ai suoi sorrisi, alle sue battute, al suo senso del dovere.
Gli somiglio più di quanto creda: lui metteva da parte oggetti fuori uso, io libri da leggere appena ho un po’ di tempo libero. Entrambi ci ritagliavamo il nostro spazio di salubre ozio accumulando qualcosa da fare per non trovarci sprovvisti di fronte all’eterno crepuscolo.

Me lo voglio ricordare con la sua divisa da vigile. La stessa con cui mi portò al primo giorno di scuola. Per non attirare critiche e note di demerito nel suo stato di servizio si fece mettere di turno alla mia scuola, per cinque anni di fila arrivavo a scuola nella Uno dei vigili.

Me lo ricordo, non volevo lasciargli né la mano né il  suo cappello bianco, pure che mia madre mi aveva rimpinzato lo zainetto di Masters perché aveva letto che per mitigare il senso d’abbandono basta anche un solo giocattolo amato. E siccome è sempre meglio abbondare che mancare, ci mise tutta la mia collezione.

Io ero riluttante, giorno dopo giorno, all’asilo, la maestra arpia mi toglieva He Man e Skeletor e li buttava sopra il suo armadietto. Lo faceva perché lei aveva altri libri a guidare le sue azioni. Forse i suoi sacri testi le dicevano che i bambini devono subito abituarsi alla cattiveria del mondo.

So solo che non ci volevo andare manco ammazzato all’asilo. Meno che mai volevo passare in prima. E pure avevo studiato tanto per l’esame di primina, avevo superato un dettato su una barchetta di carta che sfuggiva a un vento maligno. Un dettato pieno di parole come becchettio, rollio, sciabordio… Però il primo giorno andò bene, giocai con Nicola e Antonio coi puzzle per cerebrolesi, quelli a dieci pezzoni macroscopici.

E mio padre, che m’aveva promesso sul suo distintivo che sarebbe tornato, mantenne la promessa. Come sempre ha fatto.

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2 pensieri riguardo “Arrivederci, papà!

  1. La logica del conservare è così tipica dei siciliani. Sarba la pezza ppi lu purtusu. L’ho sempre sentito dire dalla generazione dei padri che ha vissuto la miseria della guerra. Ma forse c’è di più. L’utopia che gli oggetti siano i testimoni della nostra vita, parlino di noi, di quel che siamo.
    Non conosco il libro il libro di franzen. Dal brano riportato sembra interessante. Lo aggiungerò nella lista dei libri da comprare.
    A proposito di padri, un altro libro folgorante è L’invenzione della solitudine, di Paul Auster.
    Ti consiglio di leggerlo, se non l’hai ancora fatto

  2. Io oltre i libri che accumulo (neanche tanti, in fondo). Accumulo inizi. Sperando sempre che un giorno li finirò. Probabile che finisca prima io. Pazienza. Non so. Mai.
    un abbraccio.

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