E hai ottenuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E cos’è che volevi?
Potermi dire amato, sentirmi
amato sulla terra.
Raymond Carver, Ultimo frammento
Sin dove arriva a scavare la talpa dei ricordi mi vedo bimbo panciuto a far presepi con mio padre, perché mia madre non si è mai accontentata di un solo presepe. Li adora e li colleziona. E dato che casa mia si espande su tre piani con cinque stanze per piano, ne facevamo almeno quattro: quello monumentale stava nella fioriera del salotto, uno mignon stava nella cucina (un presepe che mia madre aveva vinto ad una pesca di beneficenza quando ancora era una picciridda coi boccoli nerissimi), uno nella mia stanza (avevo investito così i soldi che la mia madrina di battesimo m’aveva regalato per la mia prima Comunione) e uno nella stanza dei miei.
Quello monumentale era un’utopia fattasi sughero, colla, carta e tanto, tantissimo nastro da imballaggio. Di quello marrone che se non tratti bene finisce per appiccicarsi dovunque tranne nelle due metà che dovrebbe sposare.
Mio padre è stato sempre megalomane, una volta ne abbiamo fatto uno che era una torre di babele di cassette di frutta, quelle di legno in cui si mettono a maturare le arance. Pareva uno di quei paesini abbarbicati su un monte, con tutte le case e la vecchina che filava, l’uomo delle castagne, il macellaio, l’addumisciutu e perfino il pastorello col culo all’aria e con un pezzo di cacca che gli usciva dal deretano (quello mia madre l’ammucciava sempre e io dovevo rimetterlo nella zona più illuminata per rendere la scena più reale).
Su quel presepe suonava le sue nenie stonate il signor Di Nardo, un pecoraro che, dopo che un trattore se l’era preso di petto, aveva fatto voto di suonare a Bagheria sino alla fine dei suoi giorni la sua ciaramella, la sua zampogna. Il signor Di Nardo sapeva di cacio e di vino. La sua ciaramella era una pecora scuoiata che prima di suonare doveva gonfiare per bene e poi partivano le prime stonature, tutte a lode e gloria della Vergine Benedetta.
Quello che preferivo restava quello della cucina, un presepe-carillon piccolo e essenziale. Ma la megalomania paterna non risparmiò neanche il girotondo dei pastori attorno alla grotta dell’Evento. Mio padre gli appiccicò negli spazi vuoti quei pastorelli mignon che servono per rispettare le leggi immutabili della prospettiva. Girò per anni il disco di compensato attorno alla grotta sino a quando l’ennesimo giro di chiavetta gli fu letale.
E poi c’era l’Opera Incompiuta. E qua servirebbe una gigantesca parentesi sulle Grandi Incompiute di Giovanni Pintacuda. L’Opera Incompiuta è un presepe di compensato che le cronache dicono iniziò ad essere traforato nel 1972, in occasione del secondo anniversario di matrimonio. Mio padre traforava in attesa dell’arrivo della prole.
Nel 1978, quando nacque mia sorella, il presepe sembrava già finito ma il risultato non convinceva del tutto mio padre. Che è sempre stato un insopportabile perfezionista tale e quale a me.
Mai soddisfatti delle nostre fatiche, io e mio padre avremmo potuto lavorare di lima all’infinito. A me capita soprattutto quando i miei sforzi cozzano col fallimento del dialogo, soprattutto quello con mio padre, com’era anche giusto per i quarant’anni che ci separavano.
Lui invece iniziava duemila progetti lasciandoli sempre in uno stato di imperitura perfettibilità, non me l’ha mai detto, ma credo che, se fosse stato possibile, avrebbe riprovato pure a rifare me ex novo, con più accortezza, scozzando dal mio DNA tutti i tratti che mi rendono così simile a lui.
Il presepe doveva essere un lavoro di fino, trenta pastorelli e una capanna, niente di che. Il progetto iniziale prevedeva di traforare il legno ogni oltre umano limite, levare tutto per lasciare praticamente quattro linee stilizzate. Mio padre pensò di usare il pirografo, oggetto che nella mia testa doveva costare come minimo mezzo milione visto che mio padre non l’ha mai voluto acquistare. Sopperiva a quella mancanza riscaldando gli spiedini di ferro (gli stessi in cui mia madre infilza i suoi mitici involtini alla siciliana) sino a che diventavano roventi, rossi come le fiamme dell’inferno.
E poi li passava sul compensato. Un giorno venne a trovarci un’amica di famiglia e iniziò a guardare con concupiscenza il presepe che nel 1992 era quasi finito. Mio padre non ci pensò due volte, prese il suo ego ipertrofico e la sua sete di elogi e donò alla professoressa il presepe, finendolo in meno di due settimane. A noi disse che l’avrebbe rifatto meglio, con del compensato di faggio.
Ma l’estro artistico di mio padre si manifestò nella forma dei mitici uniposca, i pennarelloni dell’Osama che si dovevano sguazzariare per bene prima di essere utilizzati. Mio padre prese le sagome del presepe e li colorò con pallini verdi e blu, rossi e gialli. Un abominio.
E per di più chiese a me, sangue del suo sangue, cosa ne pensavo. Preferii tacere.
Poi gli anni passarono, il presepe s’era arenato di nuovo, come ogni anno.
Sino a quando andai a comprare alla Feltrinelli le poesie di Paul Celan per iniziare a scrivere la tesi.
Sulla strada c’era una ferramenta, mio padre vide in vetrina il suo oggetto totemico, quel pirografo che avrebbe comprato un giorno se avesse mai azzeccato il terno giusto sulla ruota di Palermo. Lo vidi anch’io. Capita sempre così, quando i genitori s’imbiancano ritornano più bambini di prima Mio padre aveva la stessa faccia che avevo io quando scartai il regalo del mio sesto compleanno, il bellissimo castello di Greyskull, il rifugio della maga che aveva donato a He-Man i poteri.
Mi squagliò qualcosa dentro, presi dodici euro e entrai.
Uscii e glielo diedi, lui mi guardò strano, iniziò la sua filippica fatta di “non dovevi disturbarti”, “perché non li spendevi per cose più utili…” e altre frasi da genitori.
Ero fiero di me.
Alla fine il presepe non è riuscito a portarlo a termine. Non so, forse tra le sue rughe da apache pensava che non muore mai chi ha ancora qualcosa da finire. Forse è come succede a me con i miei racconti, sempre perfettibili, future riscritture di pagine già pensate milioni di volte, storie che ci spuntano nel cuore e che devono macerare per bene nell’esperienza quotidiana.
Quando ha capito che l’ultima battaglia l’avrebbe persa ha chiesto a mia madre di non dire nulla ai suoi due picciriddi. Se n’è andato una domenica mattina di sole. Se n’è andato mentre ci aspettava, dopo aver chiamato col cellulare mezz’ora prima sua moglie. Stava aggiornando il suo taccuino, come gli aveva detto di fare la mamma. Lo stava facendo con la sua bella grafia, precisa, nitida, sicura. Lo so: dovunque è, adesso sorride e continua a raccontar le sue migliori barzellette. E magari chiede a tutti quelli che arrivano: “come andò il viaggio?”.
Bagheria, 3 maggio 2009 – 3 maggio 2010
[Papà è il secondo in basso da sinistra]
Buongiorno. Non sono esperto di scrittura, né di lettura. Bacio terra se mi finisce bene con i congiuntivi. Però penso che il brano di questa pagina sappia generare una forte intensità di emozioni partendo da eventi della vita di tutti i giorni, da scene di vita quotidiana apparentemente insignificanti che segnano per tutta la vita, e che vengono fuori violentemente nei momenti in cui non si manifestano più. Mi è piaciuto leggere e rileggere più volte il brano, e non ho trovato da parte mia nessuna perdita dell’efficacia narrativa che lo caratterizza. Forse anche troppo intimo e intenso per essere sprecato su una pagina web.
Grazie della sua attenta lettura. Grazie di cuore.
Ho letto con attenzione questo brano, che mi hai segnalato. E capisco perchè. Perdere un padre è come vedersi staccare un pezzo di pelle. Uno di quei pezzi di pelle che magari hai sempre rinnegato, combattuto, contrastato, coperto con qualche tatuaggio. Ma che poi, quando vedi che il viaggio è quasi finito, ti accorgi che quel pezzo di pelle sei tu. Esattamente come volevi essere. Esattamente come dovevi essere. Esattamente come sei. Per il resto non ho parole, per fortuna ci sono i ricordi.