BombaSiciliaDieci anni fa, al principio del mese più crudele dell’anno nasceva BombaSicilia.
Un sito, una rivista, un progetto. Molti dei redattori sono diventati illustri cittadini della Repubblica delle Lettere, altri hanno ripiegato su impieghi più concreti.
Ma quell’esperienza resta nel cuore di tutti. Laura Caroniti ci ricorda la “sua” BombaSicilia. Tutti i numeri della rivista sono qui, in pdf.

La notizia la prendo, l’apprendo, da Facebook. Ed è già un dire.

Oggi Bs avrebbe compiuto 10 anni, ti andrebbe di scrivere un ricordo della tua BombaSicilia? Come ho scritto a Branco, far passare sto anniversario nel silenzio mi par troppo.” Tonino Pintacuda.

Come dire un ricordo di lui, che era BombaSicilia. E di me e di altri, di dieci anni prima, che Bs l’abbiamo fatta. Amandola. Un atto d’amore, più che di costituzione. E di fede, una fede laica, che, per me, agiva come forza centripeta dal progetto di BombaCarta, di cui non apprezzavo nome e sostanza. Per affinità mancante. O empatia rovesciata. E, forse, un atteggiamento borderline, che non mi avrebbe mai totalmente lasciato, nemmeno dieci anni dopo.

bombasiciliaPerché iniziai a scriverci? Perché me lo chiese Tonino, che stimavo. Senza se. Era giovane, ma aveva buone idee. Quelle che si agganciano alla freschezza di chi ci crede, non di chi vorrebbe farlo. A tratti geniale, a volte grossolano, eppure la sua sola energia ti spingeva in uno slancio ideale. Visivo, performativo, esplosivo.

La grafica era dei Luimik con intuizioni postfuturiste di tutto rispetto.

Chi ricordo di quegli anni?

Demetrio Paolin. Una scrittura nuda, a recidere parole. Cauterizzarle.

Costantino Simonelli. Saggio e ironico. Una scrittura in crescendo. Di numero in numero, la possessione della parola scritta gli permetteva di fermare maggiormente la mano sul foglio.

Andrea Brancolini. Svenava parole, nella ricerca picara di un suo stile. Aveva il merito di lanciarsi, afferrando di volta in volta la tematica della e-zine come una fune. Incurante del fondo.

E, poi, c’erano le ragazze.

Maura Gancitano. Una macchina da guerra. Precisa, infaticabile, manageriale. Coniugava una scrittura matura ad una capacità gestionale, che spesso mancava a tutti gli altri.

Silvia Geraci e Giulia Merlino, che, talvolta, confondevo. Scritture vicine. Fiori di campo vanitosi nel verde.

E c’ero io. Nome e cognome. Pigra e rabbiosa, in quantità variabili per un impegno tendente al minimo. Avevo il merito di una scrittura femmina e forte come solo può esserla quella di una donna qualsiasi di un qualsiasi sud del mondo, ma difettavo di pratica, sacrificio, scadenze.

Questi ricordo, tra tante altre firme.

Cosa ricordo?

Il divertimento comune di leggerci. Di aspettare il pezzo dell’altro, perché ci stupisse. Purché ci stupisse. Non si faceva sconti in lettura: coltelli. E le parole erano giudizi, mai commenti. Siderali, perentori e non cattedratici. Servivano. Di pagina in pagina. Di parole buttate, salvavamo noi stessi, affilandoci dentro la lingua italiana e il vernacolo che più conoscevamo.

Io sono la lingua che sono, direbbe Demetrio.

Casa. BS era casa. Nostra. E le posizioni differenti si risolvevano come liti in famiglia, non per beghe di quartiere.

Il nostro merito era quello di aver edificato qualcosa senza renderci conto che lo stavamo facendo. Preziosi.

Il nostro demerito è stato non riconoscere gli sbagli che diventavano errori.

Da soglia letteraria, qual’era BS, non abbiamo voluto vedere che si stava trasformando nella peggior esternazione della sagra paesana. Noi che del paese, della provincia, riconoscevamo anche l’odore.

Abbiamo accettato di tutto: parenti, amici, fidanzate. Abbiamo smesso di dirci, e, smettendo di dirci, non abbiamo più letto. I sì erano feedback condizionati e meschini.

E dopo l’odore, abbiamo taciuto la vista. Le porcate nere su bianco. Le coliche di chi inturciuniava parole, plaudendo a se stesso, incapaci di creare alcunché.

Il bianco del nostro silenzio, ripiegava, piagandosi, sulle velleità letterarie di chi non aveva talento, ma voleva –doveva?- pur scrivere lì.

Abbiamo lasciato la soglia sguarnita, perché il livore di chi masticava assilli gelosi potesse usarla a mo’ di pitale.

Abbiamo lasciato fare. Abbiamo sguarnito la Casa. Qualcuno anche l’Isola.

Chi è restato si è lasciato sedurre dalla carta, come fosse un idolo ambito, scordando di essere eretici. E che l’eresia, la scelta, era quella della libertà della Rete, cercata per tenerci lontani dal marketing delle strenne scrittorie.

Dieci anni. Tra i noi che siamo stati, quelli che eravamo, e l’io di oggi.

Nel 2001 eravamo ragazzi, che si fingevano Uomini, Donne. Dieci anni dopo siamo uomini e donne. Alle prese con asili, pannolini, valigie, aeroporti, trasferimenti, lavori precari o inesistenti, mogli e mariti. Chi dalla propria finestra non vede Palermo, chi nemmeno l’Italia.

Viviamo come tutti di parole, che certi giorni diciamo ad altri, in altri nemmeno a noi.

Viviamo come sempre di libri, che però leggiamo ora con quel sordido senso di colpa di chi perde tempo a scapito di una qualche produzione mancata. Tra un lavoro e un bucato.

Dieci anni. 2001-2011. Sarebbe sì troppo far calare il silenzio sopra la nostra vicenda.

E se tempo addietro avrei rubato al mio Conterraneo: «Ora la calma t’aiuti a trovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza», altro è il mio senso di oggi: “On ne peut vaincre la terre, qu’au nom du ciel.” Per dirla con Benedetta Marinetti.

Tanti auguri. Tanti auguri, a Noi.

Pubblicità