
Il nome del paese è già un programma di iperboli e misteri, motivo di vanto e fuoco per la fantasia dei bambini: Montevago. A comporlo è un grappolo cementizio di isolati su una collina di tufo alta poche centinaia di metri. Poche, ma sufficienti a dargli qualifica di monte e funzione di quinta giallognola alla valle del Belice.
«Siamo alti trecentottanta!», si gonfia Rino davanti ai figli dei palermitani che in estate seguono i genitori alla ricerca di fresco nelle case dei nonni. Trecentottanta. Il numero è talmente accecante che i suoi coetanei non si chiedono nemmeno come possa contarsi tanto alto il figlio dei coloni, se la testa nervosa di Rino non supera la linea del loro naso. Mistero. Che questo sia un luogo comunque diverso dagli altri, un mallo indecifrabile dove i bassi sembrano alti, è ancor più evidente in certe ore del giorno.
Verso sera per esempio, quando Rino – detto “Treottanta” – torna a casa, il villaggio si popola tutt’insieme di cani bianchi. Mentre il sole cala nei fondi pettinati a vigne, scintillando sui vomeri lasciati davanti alle case insondabili dei contadini, le punte aguzze delle loro orecchie iniziano a moltiplicarsi. Una varicella bianca agli angoli delle strade, dietro le colonne dei garage a pianterreno, intorno alle aiuole stecchite dall’afa. Ogni tanto, da chissà dove, sotto il cielo fragolino del tramonto parte un ululato.
Sono i can’i mànnara. I cani da sempre usati per la guardia delle greggi e dell’ovile, che qua si chiama mànnara, non appartengono a nessuna razza, sono intelligenti, amano stare tra loro. I siciliani li usano a modello per indicare una persona aggressiva e spesso lo dicono di chi cerca sempre lite: quello è vero un can’i mannara. “Treottanta” però non ce l’ha con nessuno, cammina di fantasia e informa i bambini pettinati di città che dove abita lui ci sono i mannari. Lupi che manco gli adulti ci possono fare niente.
I grandi che vanno a comprare il pane della cena o arrivano in serata da fuori paese si sono già convinti e hanno sparso voce che i veri padroni di Montevago siano loro. «Giuro, li ho visti con questi occhi», dicono. «Branchi liberi e affamati. Pare che quell’ora tornino dai campi a cercare cibo per i cuccioli rimasti fra i ruderi del paese vecchio». C’è di che avere paura, concludono. Del resto, l’inquietudine mossa da quelle presenze in paese è solo un’eco dello sgomento più grande che aleggia sulla vecchia Montevago.
Il grande sisma del secolo scorso demolì questo e altri borghi della valle, e la sua impronta continua a nutrire l’aura spettrale delle macerie. Tra erbe che non volevano crescere, sfilando sotto i balconi sfondati, di notte le bestie rincorrono i sibili delle auto che risalgono la valle dirette ancora più a Sud. Le volpi attraversano sotto le stelle i tornanti deserti meravigliando i forestieri che non credevano di potersi più stupire in bellezza, dopo aver visto le palazzine erette contro ogni criterio estetico dopo il terremoto del Sessantotto.
Un giorno, nella libreria di suo nonno, Rino ha trovato una poesia che gli piace recitare agli altri, per fargli paura. Il senso non l’ha ancora capito tutto, ma basta dirla cogli occhi a fessura e la voce roca di nonno Ciccio che quelli si scantano da morire.
Nella notte vacante di uomini
che scende ogni sera
sui cani della città fantasma,
le fate di Poggioreale
escono dai tufi alla luna
sui campi brutalizzati.
Guardate lo scempio! dicono,
l’acqua di cielo assassina
ha squagliato la terra
e ora un uomo non c’è più
che andava nei marosi
di fango a curare gli allettati
– spettro anche lui è diventato.
E naviga sul Belice superando
fossi, recinti e preghiere
tutto al passaggio divora
seminando voci rotte
sulla conta dei guasti,
– a ogni dettaglio le sgozza!
Prostrate sono ora le voci
e chiedono come se n’esce,
cercano corpi con parole
che sono di un altro mondo
ma nessuno può niente,
più niente senza l’aiuto di un altro.
L’autore della poesia è anonimo e il finale ancora da capire, ma “Treottanta” si contenta di fare paura ogni volta con questa tirata al nuovo arrivato. Chissà com’era la vita prima del terremoto, gli ha chiesto però un giorno il cugino mettendolo a parte di un altro mistero. C’era davvero qualcuno in quelle case già semi scassate dalla violenza del nostro sole? La gente viveva con le persiane chiuse tutto il giorno ma conservando le storie dei contadini che da piccoli imparavano a memoria i nomi di tutti gli uccelli tormentati nelle stagioni della caccia.
Gasparino, lo zio agricoltore, detto “Novantagradi” per la postura ormai sconfitta da anni di lavoro sull’orto, un giorno gli ha raccontato di quando andava a caccia con suo padre. [fine prima parte]