di Alessandro Buttitta

Sisifo che incatena la Morte, Sisifo che viene punito dagli Dei, Sisifo che spinge un masso su e giù da una montagna. O Sisifo che lavora incessantemente e inutilmente per il resto della sua esistenza senza scopo alcuno. O ancora Sisifo che, cosciente e consapevole, accetta sereno la sua miserevole condizione.
Quando, a vent’anni, leggi queste pagine di Camus ti soffermi su Sisifo felice, sulla lotta verso la cima che basta a riempire il cuore di un uomo. A trent’anni passati ti interessano molto di più le pagine che precedono il mito del ribelle senza speranza. Ti concentri sulle sfuggenti definizioni di Assurdo, sull’uomo preda delle proprie verità, sul divorzio tra lo spirito che desidera e la realtà che delude. 

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Non si scopre l’assurdo senza essere tentati di scrivere un manuale sulla felicità“, annota a un certo punto Camus. Ed è lì, in queste contraddizioni, che capisci quanto sia necessaria una comprensione appassionata della realtà per accettarla senza remore. Perché eludere è il gioco della vita, perché solamente quando agiamo e lottiamo possiamo sentirci liberi. 

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Non credo che la lotta verso la cima basti a riempire il cuore di un uomo. Ci vogliono una coerenza e una fermezza che non appartengono a questo mondo. Nessuno ha divinità da sfidare, quasi nessuno ha così tanto da dimostrare, pochissimi di noi hanno un destino tragico da compiere o consumare. Sisifo può insegnarci come accettare e vivere i momenti che ci capitano in sorte. Non è poco. Forse, a ripensarci bene, non è neanche tanto. Non basta immaginare Sisifo felice. Sarebbe più opportuno sapere se felice, Sisifo, lo è stato realmente. 

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