Una data gnomone: il 17 giugno. Tutta la storia ruota attorno a questa data nel primo romanzo di Giulio Mozzi. Che coincida con la data di nascita dell’autore non deve sviarci. Il primo capitolo stordisce come l’odore del bosso che inchioda Mario, un periodare in cui il lettore si perde e si trova avvinto. Qui è Proust a guidarci, il Proust tradotto da Giovanni Raboni. Lì la madeleine, qui il bosso.

Così Proust:

«Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me»

Così Mozzi:

«Mario si sentì quasi mancare. Gli girava la testa. Restò immobile, in piedi. Chiuse gli occhi. Ricordò, di colpo. Ricordò il giardino del Castello, a San Daniele del Friuli. Ricordò sé stesso bambino. Ricordò la vasca della fontana, e gli insetti dalle lunghe zampe che camminavano sulla superficie dell’acqua: così leggeri da non rompere la tensione superficiale. Ricordò l’argilla che col fratello maggiore – di nascosto dal giardiniere – aveva più volte scavata per portarla a casa della nonna e farci poi delle piccole, elementari sculture: dei piattini, degli indefiniti animaletti, una lucerna che aveva richiesto particolare impegno – lo stoppino fatto con un pezzetto di laccio delle scarpe, l’olio rubato dalla cucina. Ricordò la casa della nonna, il salone inaccessibile senza esplicita richiesta ed esplicito permesso giusto a sinistra della porta d’ingresso, il corridoio ad angolo a destra della porta stessa, prima dell’angolo l’office – una stanza dagli impieghi misteriosi, dotata di un tavolino e di un’ottomana, e di fatto mai utilizzata da nessuno per essuna attività –, la stanza centrale dalla quale si accedeva al giardino, alla cucina, all’enorme e semivuota stanza da bagno – ricavata, così diceva la nonna, da un antico forno per il pane – e alla scala che saliva alle due camere da letto. Ricordò la camera con la tappezzeria a farfalle, che aveva una finestra sul giardino e un’altra finestra sul lato opposto che dava su un corridoio – un ballatoio successivamente murato, in realtà –, e la camera con la tappezzeria gialla, nella quale non dormiva mai nessuno, il letto occupato da un’enorme bambola di ceramica dai vestiti così impolverati che se solo la sfioravi poi ti pizzicavano le dita. Ricordò, Mario, nel giardino di Boboli, quel preteso 17 giugno del 1998, piccole cose alle quali non pensava da anni – da venticinque, forse da trenta. Ricordò sé stesso bambino, i libri nella vetrinetta, ai quali aveva libero accesso, rilegati in tela rossa, col nastrino per tenere il segno – Zanna Bianca, Un capitano di quindici anni, L’ostinato signor Keraban, La luce che si spense… –, e i libri di divulgazione archeologica per i quali ci voleva invece, chissà perché, il permesso – Civiltà sepolte, Il libro delle rupi… –, ricordò i suoi tentativi di scrivere in geroglifici o in Lineare B, ricordò i piatti che la nonna cucinava e che erano così diversi da quelli che cucinava la mamma: le crespelle, il polpettone con le verdure dentro, l’odiatissimo pollo. Ricordò l’appartamento del piano di sopra, dove abitava la prozia maestra, il pavimento elastico del larghissimo corridoio – era una casa del Seicento, con le travi in legno –, la lavatrice semiautomatica che durante la centrifuga andava a spasso per la cucina fino a strappare la spina e spegnersi, i letti altissimi. Ricordò, Mario, investito dall’ondata di profumo del bosso, tutto. Se non fu tutto, gli scappava sempre di dire a questo punto del racconto, tutto gli parve. E fu tutto in un colpo. Il fatto durò pochissimo.

Ecco, questa è la soglia. Siamo solo al primo capitolo in cui incontriamo Mario, “senz’altra qualità che quella di sentirsi vivo solo nell’obbedienza” descritto così dallo stesso Mozzi nel suo diario di scrittura pubblicato su Tuttolibri. Mozzi procede e il racconto vede sfilare altri personaggi. Artisti più o meno consapevoli, donne molli e accoglienti che celano in bella vista sordidi segreti e, su tutti, titaneggia quel Santiago che ci attira e ci respinge, dedito ad atti di sadismo gratuiti di cui abbiamo paura sin dal primo rigo. Un giovanotto che “si sente vivo solo quando domina”. Guardi l’orologio, incominci a sottolineare pezzi sempre più abbondanti del testo. Ecco: il Grande Romanzo di Mozzi è un romanzo da leggere con l’evidenziatore, con la matita, con il dito pronto a piegare la carta, coi post-it colorati da inframezzare nelle pagine.

La mia compagna ha una abitudine consolidata: prima di leggere sfoglia le prime e le ultime pagine. Con Le Ripetizioni ha allontanato il libro con raccapriccio, i suoi occhi son finiti nella scena finale che è volutamente respingente. Senza averla ancora letta, vedo già lumeggiare gli occhi del sardonico Santiago. In questo romanzo coesistono il primo Mozzi di “Questo è il giardino” e quello antitetico de “Il male naturale”.  La prosa di Mozzi è il precipitato di anni e anni di letture, di ricerche di libri e poetiche, letteratura vissuta che poi si è fatta inchiostro, carta e, finalmente, libro.

Torno a leggere.

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