di Alessandro Buttitta
Noi siamo quel che facciamo. Le intenzioni, specialmente se buone, e i rimorsi, specialmente se giusti, ognuno, dentro di sé, può giocarseli come vuole, fino alla disintegrazione, alla follia. Ma un fatto è un fatto: non ha contraddizioni, non ha ambiguità, non contiene il diverso e il contrario.
Ci sono frasi che diventano bussole. Forniscono delle coordinate morali, tracciano delle rotte emotive, indicano percorsi esistenziali. A me è successo con questo passo di “Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia”, romanzo di Leonardo Sciascia che omaggia e celebra il “Candido” di Voltaire. Si tratta di un libro agile, denso di considerazioni sull’Italia del dopoguerra, testimonianza soprattutto di una profonda disillusione.
Il protagonista, Candido Munafò, nasce nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943. Proprio in quelle ore gli americani sbarcano in Sicilia. I genitori del bambino erano inizialmente decisi per un altro nome, Bruno, in onore del figlio di Mussolini. Con il capovolgimento della situazione politica in Italia meglio dimenticare il passato. Quindi scelgono di chiamarlo Candido, ingenuo, puro.
Candido è realmente puro. Nel corso del romanzo lo vediamo alle prese con la verità più volte. Per lui siamo realmente ciò che facciamo. Per lui non dovrebbe esistere uno scarto tra le nostre parole e le nostre azioni. Un avvocato, che predica giustizia, può negare che un assassino reo confesso sia veramente un assassino? Un comunista che si dichiara vicino al popolo può osteggiare la donazione di terre ai contadini? Un generale fascista può riciclarsi come politico democristiano e fare finta di niente del passato in osservanza dei tempi che cambiano? Si può far passare sottotraccia l’abbraccio mortale tra governo americano e mafiosi siciliani in occasione dello sbarco in Sicilia? Sono domande, queste, che trovano risposte amare nel romanzo di Sciascia.
Abbiamo detto che per Candido non esistono vie di mezzo, non esistono compromessi. Tuttavia, crescendo, il ragazzo abbandona pretese e ingenuità. Capisce il significato della responsabilità individuale in un mondo pieno di retorica e di contraddizioni. Comprende quanto siano importanti gli esempi personali, comprende qual è il valore della coerenza.
Fondamentale per Candido è l’incontro con don Antonio, un prete che rinuncia all’abito talare perché non si riconosce più nella Chiesa cattolica. Entrambi conoscono il dubbio; entrambi lo coltivano. Nel finale del libro – non a caso – i due si ritrovano a Parigi, ad ammirare la statua di Voltaire e dire che sono figli della fortuna. Di padri, di figli, di nipoti meglio non parlare. Siamo quel che facciamo. Siamo il presente che costruiamo oltre ogni ragionevole dubbio.
Intervento in occasione dell’incontro “Noi e Sciascia” del Laboratorio dei Giovani della Dante di Palermo.