oggi è la giornata mondiale del teatro chiuso. ricordo, nel lontano 2021, il primo anno che si festeggiò, molti erano depressi perché cercavano a pranzo, nel piatto riscaldato della sera prima, l’odore dei camerini ancora sigillati.

lo sconforto era comune e diffuso, come se all’improvviso chiunque facesse teatro all’epoca avesse un’appagante scrittura in chissà quale stabile. molti avevano quasi del tutto dimenticato la precedente vita funambolica, il tanto amore diluito nella miseria di

provini falliti, prove e spettacoli non pagati, questue per la stagione estiva, angoscianti settimane di inattività, riunioni autoconvocate, perenne ricerca di spazi dove incontrarsi, corse folli tra più laboratori di quartiere

e tanto altro, nel moto perpetuo fra senso di appartenenza e rancori isolazionisti. ma proprio dimenticando e liberandosi dalle vecchie grammatiche della sopravvivenza teatrale, di anno in anno coi palcoscenici ancora sbarrati

iniziò a circolare un nuovo modo di fare e intendere l’arte che la realtà cambiata spinse a forme sempre più autonome da quegli scheletri vuoti e sigillati che erano i teatri, alibi e insieme causa di un impossibile rinnovamento.

è grazie a questa festa, memoria di quella prima giornata mondiale del teatro chiuso nel lontano 2021, se oggi possiamo godere quello che godiamo, vedere e sentire ciò che vediamo e sentiamo, con quella naturalezza che a volte ce lo fa sembrare scontato, ormai banale.

ricordate invece che in passato non esisteva niente di tutto ciò: tutto sembra facile, finché c’è qualcuno che lo inventa, e la prima cosa che molti di noi pensano, ancora oggi, a trent’anni dalla chiusura dei teatri, è “potevo farlo anch’io”.

ma non è così. non è così.

Pubblicità